Questione di passione? Questione di soldi? Questione di voler essere qualcuno, diventare un vip, finire nelle riviste di gossip? Questione di voler vivere una sorta di vita alla Holly e Benji, a cui forse ai giovani di oggi non diranno niente, ma che hanno fatto sognare tantissimi ragazzi?

Chi decide di intraprendere la via del calciatore, perché lo fa? Questo è quello che mi domando. Vi sono diversi livelli, ci sono diversi stadi, però mi domando quanto le famiglie che sostengono e forse montano la testa ai propri figli rovinandogli anche la vita, vogliono che loro diventino dei calciatori perché così potranno essere famosi. Avere una bella macchina e una montagna di soldi e il tutto in pochi anni di attività?
Quanto invece vogliono diventare calciatori semplicemente perché ci credono? Per semplice spirito di passione? Perché amano realmente il calcio? Difficile rispondere, difficile a dirsi. Amo il calcio. Bellissima frase che spesso pronuncia più di qualche giocatore milionario.
Così come mi domando se hanno effettivamente tutti la stessa possibilità per arrivare a certi livelli. Tutti da piccoli partono con le stesse potenzialità, la differenza spesso è data non tanto dalle proprie qualità personali o tecniche che comunque verranno con il tempo, ma dallo spirito di sacrifico della famiglia, dalla disponibilità economica della famiglia di provenienza.

Per arrivare a certi livelli si deve spendere, almeno qui da noi, in Italia. Se si continua così il calcio rischierà di diventare come il tennis, uno sport di massa per il pubblico che lo segue, ma di vip, elitario, per pochi eletti e fortunati (perché benestanti) per chi lo pratica a certi livelli.
Si dovrebbero effettuare degli studi sociali, oggi, per capire, salvo qualche caso che pare essere l'eccezione e non la regola, il percorso che viene intrapreso per arrivare a certi livelli, per entrare nel mondo del calcio professionistico, nella massima serie. Per comprendere se è effettivamente alla portata di tutti questo mondo sempre più compromesso dal danaro, o solo per pochi.
Siamo spesso abituati ad immaginare nomi di grandi campioni che provengono da periferie degradate, osservati casualmente dall'occhio giusto, al momento giusto. Storie che emozionano, che parlano di povertà, di miseria, di riscatto che ti fanno apparire il calcio come elemento dove l'uguaglianza è possibile. Ma non saranno questi casi, eccezionali e funzionali a far apparire come umano un sistema che è solo business e che rischia di diventare esclusivamente per ricchi, a cambiare la sostanza.

Nelle nostre strade, periferie, nei luoghi  vissuti ogni giorno vi sono una infinità di ragazzi che potrebbero fare il calciatore. Non per soldi, ma per passione. Sono poveri. Non hanno la possibilità di frequentare scuole a pagamento, corsi ed a volte neanche di comprarsi le scarpe, che non costano mica poco.
Solo un calcio più sociale, più giusto, più accessibile a tutti potrà forse portare alla vera via della passione e mettere in discussione il calcio business. Ma è una questione culturale importante, morale ed anche etica che non si risolve in due minuti...