Quando mia sorella più grande si divertiva diabolicamente a farmi un dispetto, non sono mai riuscito a controllarmi. E la mia risposta era non meno di dieci volte superiore al danno ricevuto. Dopodiché arrivava mio padre, che con uno scappellotto a entrambi sistemava sempre le cose. Basterebbe questo a semplificare e ridicolizzare quel che dovrebbe succedere in relazione all'accaduto di ieri pomeriggio ai microfoni di Premium Sport. Provocazione in campo e reazione di fronte ai media. Ma si sa, le cose tra fratelli si risolvono sempre in equità totale, poiché non c'è una telecamera a cui il padre dovrà render conto, non c'è la necessità di schierarsi di fronte ad un pubblico e non c'è da catechizzare il mondo con una pena particolare. In famiglia conta solamente dare una lezione ad entrambi gli attori in scena, poiché una mano che scaglia la ghiaia è colpevole tanto quanto un'altra che risponde con una pietra. Entrambe le mani avevano una scelta ed entrambe hanno scelto la strada sbagliata. C'è un quesito amletico più vecchio di ognuno di noi, degenerativo, al quale è complicato attribuire una risposta definitiva: per quale ragione viene preso in considerazione sempre e solo il "secondo atto" di ogni diatriba? Per quale motivo la vendetta assume connotati di rilievo, anche tre volte superiori all'agente scatenante? Perché si tiene sotto esame sempre e solo la pronta replica? Non lasciatevi ingannare dalla più semplicistica delle conclusioni: il livello della gravità di qualsivoglia risposta costituirà nient'altro che una triste aggravante. Sarà comunque la ribattuta ad un torto subito ad avere rilievo, non c'è spazio e non c'è attenzione per le provocazioni, complicate da valutare, da giudicare e da punire. A differenza di un gesto di reazione netto, chiaro ed istintivo, che non lascia mai adito a dubbi. Se ci caliamo nel caso specifico, scopriamo che un uomo si rivolge ad un altro di fronte ad una vasta platea, apostrofandolo come venditore ambulante di fronte alle telecamere. Chi giudicherà questa vicenda sarà la Procura Federale, l'accusa che serpeggia sembra essere di quelle più gravi e senza perdono: il Razzismo. Posto che - come ampiamente ho anticipato - basarsi sul comportamento tenuto in campo dal buon Rudiger per tentare di scagionare Lulic dalle proprie esternazioni sia tremendamente impossibile, non riesco in alcun modo a darmi pena di fronte ad un episodio che mi lascia solo tanta, tantissima ilarità. Ed ora chiediamoci Le Cose Come Stanno. Esatto, chiediamocele. Con una serie di domande determinanti. Se Lulic fosse stato di carnagione scura, qualcuno avrebbe giudicato come "razzismo" il suo intervento verso un calciatore dalla stessa carnagione? Chi ad oggi vende calzini e cinture, ed ha la carnagione chiara, come deve sentirsi rispetto a questa vicenda? I venditori fuori dallo stadio, di qualsiasi carnagione essi siano, quali sentimenti devono provare? Che l'intento di Lulic fosse quello di dipingere Rudiger come un calciatore professionalmente sconosciuto che, fino a pochi anni prima, era lontano da palcoscenici di questo tipo e ad oggi si atteggia come un fuoriclasse, è un concetto evidente. Rafforzato poi dal proseguo del calciatore Bosniaco, il quale aggiunge un "E adesso fa il fenomeno" per definire il comportamento provocatorio e irriverente dell'avversario. Chi ad oggi si sente di condannare Lulic per Razzismo, in minima parte condanni proprio sé stesso. Il nesso e l'analogia immediata nel binomio "venditore-uomo di colore" non deve e non può essere nell'immaginario e nella cultura del sospetto di chi si definisce contro il razzismo. Cristo non è morto dal sonno, e non è mia intenzione raccontarvelo. Ma sul serio: non prendiamoci troppo seriamente. Dieci giornate di squalifica siano da comminare a chi simula spudoratamente e reiteratamente, a chi provoca tutte le domeniche in mezzo al campo, a chi offende gravemente il colore della pelle senza il benché minimo dubbio d'interpretazione. E voglio aggiungere una postilla di notevole impatto: anche solo il semplice parlare ed ipotizzare stangate di questo genere per l'episodio Lulic-Rudiger non può far altro che designare un effetto opposto a quello che si cerca di ottenere, a 180 gradi: è esattamente questa cultura del sospetto che ci rende pesantemente e costantemente un paese di stampo razzista, sull'attenti e vigili quando si apre la possibilità per fare bella figura di fronte alla UEFA, come chi annuisce e finge attenzione in classe ma in realtà non ha mai capito un bel niente. Confondendo sempre l'alba col tramonto in una caccia alle streghe spesso inesistente, retorica e a tratti lievemente imbarazzante. Abbiamo visto tutti cose successe e dette in campo e fuori di stampo razzista, politico e religioso che, in confronto alle dieci giornate richieste per Lulic, avrebbero meritato un ergastolo calcistico. Eppure, come al solito, sarà sempre più facile impiccare un ladro di polli. Made in Italy MC