Che il calcio, nell’immaginario collettivo, rappresenti lo sport per eccellenza, lo sport maggiormente in grado di coinvolgere perfettamente tanto chi lo pratica attivamente quanto chi lo segue, è cosa assai risaputa.
Esiste un particolare interrogativo, tuttavia, che praticamente da sempre mi stimola nelle varie e cicliche analisi che concedo a questo fenomeno mondiale: al giorno d’oggi, c’è spazio per un pizzico di Romanticismo nel calcio? O, meglio: è possibile recuperare quella leggera vena di Romanticismo che, in un’epoca sportiva ormai remota, rendeva il tutto un’opera pressoché perfetta?

Ora come ora, risulta difficile esaurire in modo soddisfacente la domanda posta e, per individuare il motivo di questa complessità, non bisogna sforzarsi più di tanto.
E’ sotto gli occhi di tutti: lo scorrere inesorabile del tempo, di fatto, ha permesso al mondo calcistico di divenire un freddo ammasso di meccaniche economiche ben precise, una cooperativa dove tutti i club in gioco possano, chi più chi meno, ricavare un certo tipo di profitto.
Ora, nel leggere tutto ciò, crederete che io condanni a prescindere l’aspetto “business” legato a questo sport. Niente di più sbagliato. Comprendo perfettamente le esigenze di natura economica di ogni singola entità impegnata, così come comprendo che, molto probabilmente, tanti dei club che abbiamo imparato ad amare, tanti dei calciatori che abbiamo imparato ad idolatrare, tanti dei successi che ci siamo divertiti a festeggiare nel susseguirsi delle stagioni, non sarebbero mai esistiti.

Ma il troppo, come da proverbio, storpia. Storpia, e anche tanto, soprattutto se la lente d’ingrandimento viene spostata solo ed esclusivamente su meccaniche di questo genere. Dov’è finito quel senso di immedesimazione che, in origine, ci permetteva di entrare in empatia con il calcio, in generale, e con il singolo calciatore o con la storia del singolo club, nello specifico?
Personalmente, per quanto possa nutrire forti dubbi sulle cose che io stesso sto per scrivere, spero che si sia semplicemente sopito: dinanzi a trasferimenti folli, dinanzi ad un business così “feroce” e così “sporco”, dinanzi ad un ambiente che sembra quasi voler denigrare quell’aspetto sentimentale presente in ogni ambito della nostra vita, io mi auguro che si trovi in un profondo, profondissimo letargo. E che, magari, attenda con trepidazione un messaggio, un segnale forte ed inequivocabile. Un “sono pronto a vivere questo magnifico fenomeno prima con il cuore, poi con la testa ed infine, in lontananza, col portafoglio” che destabilizzerebbe una situazione ormai fin troppo statica.

Ma, forse, non c’è più spazio per ragionamenti del genere: per quanto un tifoso possa cantare a squarciagola l’inno della propria squadra preferita, per quanto un ultrà possa immedesimarsi od incoraggiare un giocatore o un allenatore meritevole, per quanto il cuore possa cercare di auto-lanciarsi oltre l’ostacolo, la verità sarà immutabile.
Immutabile in una visione d’insieme, certo, ma non in una a stampo individuale. Provate a focalizzare due particolari eventi, anche piuttosto recenti: l’addio di Francesco Totti, dopo ben 25 anni di onorata carriera e fedeltà, alla Roma e l’operazione record, con ben 222 milioni di euro spesi (spese extra escluse), che ha coinvolto il Barcellona, il PSG e la stella brasiliana Neymar.
Focalizzate i due momenti, riviveteli. E, vi prego, fate caso al battito del vostro cuore per l’uno e/o per l’altro. Il risultato, seppur facilmente pronosticabile, vi stupirà. Vi stupirà non per la preferenza, quasi banale, attribuita alla prima opzione, no. Vi stupirà perché magari, per qualche secondo, sarete riusciti a spostare la lente d’ingrandimento su uno strumento d’analisi indispensabile, ma dimenticato: il vostro cuore.