Quando arrivò in Italia, dopo il breve interregno di Thomas Di Benedetto, James Pallotta fu salutato come un genio dell’impresa e della finanza in grado di portare efficienza e innovazione nella AS Roma, che, seppur condotta ai vertici del calcio nazionale dalla famiglia Sensi, stava vacillando a causa di una gestione familiare tenuta insieme, dicono i diretti interessati, più dall’affetto per i colori giallorossi che per l’effettiva remuneratività dell’investimento.
Ben inteso: il vecchio Franco Sensi, uomo schietto dai tratti rusticani ma dal cervello fino, era sicuramente un imprenditore troppo attento per avventurarsi e perseverare in una attività imprenditoriale che non fosse in qualche modo utile anche alla famiglia. Ma anche se i dati di bilancio erano da anni meritevoli di attenzioni e cure, qualcuno malignò che la vendita fosse il risultato della determinazione con cui Unicredit – il colosso bancario italiano che voleva imparare le lingue e girare il mondo - aveva richiesto il rientro dalle esposizioni delle società della famiglia Sensi e della AS Roma in particolare.
D’altronde, erano anni in cui dall’Europa arrivavano continue pressioni per destabilizzare l’economia italiana ed enfatizzare gli effetti di una crisi finanziaria senza precedenti: sui telegiornali, sui quotidiani e persino nei bar si viveva nell’incubo costante dello spread e del default. I banchieri di Unicredit e i loro prestigiosi advisor, avvocati e consulenti di prim’ordine, forse spaventati dall’imminente Armageddon, cercarono per mesi un potenziale salvatore della As Roma, scegliendo infine una cordata americana il cui leader effettivo si sarebbe svelato solo col tempo: James Pallotta.

Sconosciuto al grande pubblico, si parlò di lui come di un finanziere benestante, con una spiccata propensione agli investimenti, soprattutto se speculativi. Mai davvero appassionato di calcio, al punto di dichiarare di averlo persino odiato, amava invece il basket  e i Boston Celtics, di cui era stato prima grande tifoso e poi, dal 2002, socio di minoranza, fino a coronare nel 2008 il sogno di conquistare il prestigioso anello NBA. Dalla complessa genealogia della famiglia Pallotta – Di Giacomo erano rapidamente emerse parentele sparse in tutta la penisola, da Teramo a Canosa, dalla Calabria a Poggio Nativo: tutti sognavano la redenzione per mano dello Zio d’America.  
Affidatosi all’ex dirigente Franco Baldini, con cui condivideva la passione per Londra (e secondo bizzarre accuse mai provate né smentite la vicinanza ad ambienti molto riservati della cosiddetta finanza laica), aveva lanciato un modello rivoluzionario: tantissimi acquisti, molti giovani, allenatori non vincenti, ma funzionali al progetto di valorizzare i giovani per realizzare cospicue plusvalenze, come il debuttante Luis Enrique o il redivivo Zdenek Zeman.
E soprattutto spingendo in tutte le sedi per avere un grande stadio di proprietà, secondo il modello di business sportivo più vincente nel mondo, ma con cubature circostanti così imponenti da fare invidia alle grandi lottizzazioni dei palazzinari anni settanta. Suscitando le perplessità di molti. Qualcuno guardava il progetto stadio con preoccupazione, dagli ambientalisti acerrimi nemici del cemento, ai semplici cittadini esasperati dai servizi scadenti della città, che si chiedevano ragione di questa improvvisa priorità, fino ai tifosi, che si domandavano per quale ragione lo stadio dovesse essere di proprietà della società di Pallotta e dato in affitto alla AS Roma. Qualcuno invece guardava il progetto con invidia: dalle opposizioni politiche che forse avrebbero voluto gestire in prima persona il business milionario, fino ai costruttori, alcuni anche editori di giornali, incapaci di credere che tanta grazia cementizia fosse andata in dote ad un solo concorrente.
L’unico davvero convinto, oltre al presidente americano e al suo entourage, sembrava essere il sindaco Marino, poi dimessosi e tuttora al centro di una spinosa vicenda giudiziaria, entusiasta sin dal primo momento, al punto da raggiungere più volte Pallotta nell’amata America.
Si scrisse anche che il costruttore fosse molto gradito alla Unicredit, finanziatrice sua e della As Roma, e che la stessa banca avrebbe volentieri spostato i suoi uffici romani in una delle mega torri che sarebbero spuntate sulle acquitrinose campagne di Tor di Valle.

I risultati sportivi, invece, furono in principio deludenti, se non addirittura fallimentari, sia con Luis Enrique, che con Zeman e Andreazzoli, in un ciclo terribile conclusosi con la famosa “Coppa in faccia” alzata all’Olimpico dagli odiati cugini della SS Lazio.
Nel frattempo, uscito di scena il gran cerimoniere Baldini, la scena del mercato giallorosso si muoveva freneticamente dietro alla nuvola di fumo di Walter Sabatini, ex calciatore, brillante direttore sportivo incappato in una vicenda poco qualificante e poi riabilitato, ma soprattutto insaziabile scopritore di giovani talenti, in modo particolare nel Palermo di Zamparini e proprio alla Lazio di Lotito, sull’altra sponda del Tevere.

Stante l’esigenza di far quadrare i bilanci e l’indisponibilità della proprietà a fare maggiori investimenti, le attività sportive si sono rette per anni sulla continua compravendita di giocatori, valorizzati e poi rivenduti a peso d’oro dall’abilissimo Sabatini: qualcuno forte, qualcuno rapidamente scomparso dai radar. Fino all’arrivo di un semi-sconosciuto allenatore francese di origine spagnola, Rudi Garcia, che almeno uno scudetto francese, nella piccola Lille, lo aveva portato a casa.
Ma questa è un'altra puntata... (continua)