Come temevo, la prima stagionale della Juve in una partita vera ha rafforzato la mia convinzione: dopo Cardiff Max Allegri avrebbe dovuto lasciare Torino. Non perché la partita contro gli spagnoli, per sua stessa ammissione, sia stata persa per colpa dell’assurda decisione di rientrare in campo nel secondo tempo con due giocatori "rotti", ma semplicemente perché, a mio avviso, era ormai giunto il suo tempo. Ho scritto in passato che tutti gli juventini che non hanno mai amato il livornese, a iniziare dallo scrivente, dopo gli ultimi tre anni avrebbero dovuto fare mea culpa. Allegri ha preso in mano una squadra che proveniva da un ciclo strepitoso, caratterizzato da numerosi record e che poteva concludersi dopo i tre anni contiani. Ha accettato di rischiare, mettendo sul piatto l’intero suo futuro. Qualora avesse fallito alla Juve, con ogni probabilità sarebbe tornato un anonimo allenatore di provincia. Purtroppo per noi, quella è stata l’ultima volta in cui ha deciso di mettersi veramente in gioco e osare il tutto per tutto. Grazie anche al suo contributo abbiamo definitivamente iscritto la nostra primazia nella storia del campionato italiano e siamo tornati nel gotha del calcio europeo. Sono fatti inconfutabili.

I suoi punti di forza sono l’equilibrio e la spensieratezza nell'organizzazione di gioco, unitamente alla capacità di gestire i giovani e il gruppo senza inutili integralismi. La sua visione del gioco del calcio, per certi versi condivisibile, è molto semplice: i moduli e le tattiche contano poco, l’importante è giocare bene la palla. Ma in questa concezione è insito anche il suo limite. A lui piacciano i giocatori dai piedi buoni. Non interessa il carattere, il carisma e la forza dell’atleta: conta solo la capacità tecnica. Ma se tutto ciò bastasse a fare di un atleta un campione, gente come Cassano e Balotelli avrebbero avuto una carriera straordinaria. Spesso, invece, in una squadra contano più i Vidal o i Naiggolan, dei Pjanic e degli Higuain. Anzi, il mix tra gli uni e gli altri è l’ideale. Il nostro ama i Pjanic, che vorrebbe trasformare in Pirlo, ma che con Andrea non ha nulla a che vedere. E proprio Pjanic, a mio parere, è e sarà la sua nemesi. Per far giocare lui, trasformandolo nel giocatore che non sarà mai, abbiamo bruciato Bonucci e Marchisio. Inoltre, la sua presunta inamovibile titolarità condizionerà anche gli acquisti futuri nel reparto.

Purtroppo il ragazzo, per le velleità del proprio allenatore, si ritrova ad arrabattarsi in mezzo al campo, troppo vicino alla propria area (dove spesso fa danno, come l’anno scorso a Bergamo, uno dei momenti cruciali della stagione) e quasi sempre in affanno. È costretto non solo a prendersi il pallone vicino a Buffon, privato stupidamente dell’apporto di Bonucci, per iniziare un’azione che - come si è visto ieri - comincia spesso molto male, ma anche a fare il "ruba palloni", nonostante un fisico da mezzofondista etiope. Pjanic non è uno in grado di prendersi sulle spalle un’intera squadra, come vorrebbe Allegri, e non sposta gli equilibri in mediana (tranne quando batte le punizioni e i calci da fermo). Il serbo, in realtà, è l’illusione che società e allenatore vogliono propinarci per nascondere le macerie lasciate dallo smembramento di quello che un tempo era uno dei centrocampi più forti d’Europa. Se Allegri insisterà a farlo giocare fuori ruolo, e la società continuerà a comprare medioman nella zona nevralgica del campo, Cardiff non finirà mai e il tempo finale del nostro mister arriverà in modo più traumatico di quello che poteva essere se avesse lasciato da vincente (come il furbacchione di Setubal).

Da innamorato dei colori bianconeri, mi auguro ovviamente che Allegri faccia il salto di qualità. Spero che accantoni il suo spirito conservativo e smentisca finalmente il vaticinio di Tevez durante la famosa sostituzione contro il Real. Ieri, contro la Lazio, partire con Barzagli terzino e giocare di contropiede si sono rivelate scelte tattiche disastrose. Troppa la differenza qualitativa in campo. Contro una Lazio senza Biglia e Keita Blade, dovevamo dominare. E invece, la forza caratteriale e la "tigna" dei biancoelesti ha prevalso nettamente sui nostri "piedi buoni". A che serve riempirsi di attaccanti se, invece di prediligere una costante aggressione dell'avversario, si parte a tre dietro e si gioca di rimessa? Il calcio caro mister, come lei ci insegna, è un gioco semplice. Tuttavia, se prenderne meno dell’avversario può andar bene nel campionato italiano - al più in caso di andata e ritorno nelle partite di coppa -, in finale conta solo farne più dell’avversario.