Una finale di Europa League dall’andamento monodirezionale: il Manchester United conquista l’unico trofeo mancante nel suo già ricco palmares e Josè Mourinho si conferma tecnico particolarmente avvezzo al palcoscenico europeo, confezionando al suo primo anno nei Red Devils un piccolo “triplete”, con due coppe nazionali e una europea. Risultato quasi mai messo in discussione, con un avversario, l’Ajax, che non ha mai impensierito il sodalizio di Manchester; intendiamoci, l’Ajax ha già fatto risultati straordinari in questa stagione: una squadra composta nella sua interezza da giovanissimi, è riuscita a realizzare un percorso straordinario in Europa League, raggiungendo la finale di Stoccolma. Tra United e Ajax c’era un baratro, fatto di esperienza nei singoli calciatori e fisicità che ha reso questa finale una partita mai in discussione: con la gioventù puoi fare grandi cose ma molto difficilmente si arriverà alla vittoria, questo il verdetto confermato dalla partita di ieri sera. Sono abbastanza certo che, dall’undici proposto ieri sera dall’Ajax, fuoriusciranno molti interpreti che diventeranno protagonisti assoluti del calcio europeo: Sanchez, Klaassen, Ziyech, Traorè, Dollberg, Younes sono tutti calciatori formidabili e per certi versi già pronti al grande salto in realtà d’élite europee. Tuttavia dal match di ieri sera è uscita tutta l’inesperienza tattica, unita ad un evidente divario fisico contrapposta all’acume tattico del Manchester United che ha saputo vincere la partita a partire dalla tattica. Mourinho ha infatti chiuso ogni spazio possibile alla compagine dei Lancieri che a loro volta non hanno saputo rivedere alcuni loro automatismi e tutto ciò ha reso la partita da difficile a impossibile per loro: che hanno recitando il loro solito spartito fatto di gioco corale, di schemi preconfezionati e giocate quasi a memoria, prerogativa del calcio olandese e marchi di fabbrica dell’Ajax, dove già a partire dalle giovanili si gioca in un certo modo con un certo sistema di gioco. Prospettiva questa che potrà affascinare certi amanti del calcio “moderno” ma che tuttavia, personalmente, non fa altro che sostenere alcune mie convinzioni nel vedere poi la realizzazione pratica di queste idee. Personalmente ritengo che nel calcio, oggi come ieri, a fare la differenza non sia il gioco ma innanzitutto la capacità di leggere le partite, le situazioni e i momenti che solo in parte si possono ricreare in allenamento. Per far questo non serve incasellare il giocatore in uno schema ma educarlo a studiare gli avversari. A fare la differenza spesso e volentieri sono i duelli uno contro uno vinti e le capacità tecniche individuali dei singoli calciatori. Vedere una squadra giocar bene è sicuramente una buona cosa, certamente un bel gioco mette d’accordo tutti ma alla base di tutto ci deve essere la cultura della vittoria, in uno sport dove la filosofia del “mas all del “mas allá del resultado” non troverà spazio finché non cambieranno le regole e a vincere non sarà più di fa più gol ma chi è più “bello”, concetto che andrebbe poi calato nella realtà del significato del termine. Quindi a mio avviso un allenatore vincente non è colui il quale porta un sistema o uno stile di gioco come distintivo e lo cerca di ricreare in ogni squadra che va ad allenare; un buon allenatore è quello che, in base al potenziale di giocatori di cui dispone e in base all’avversario che ha di fronte, prepara la partita. Evviva quindi i pragmatici: i Mourinho, gli Allegri, i Simeone, gli allenatori di scuola italiana, evviva chi non fa del calcio una scienza esatta e uno spettacolo circense. Uno schema ben riuscito allieta la visione della partita ma non è la “conditio sine qua non” per giudicare una squadra e un allenatore validi. Io la vedo così.